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Storia del territorio

L’Età Antica - Cleta l’amazzone

Particolare di Cleto

Cleto è la cittadina che ha radici più remote, la fondazione trae origine dalla leggenda di Cleta e dal mito delle Amazzoni, le sacerdotesse guerriere della dea Atena. La leggenda narra di Pentesilea, (figlia di Ares e di Otrera, regina delle Amazzoni, il popolo di donne guerriere abitanti della Scizia e dell’odierno Ponto, antica regione dell’Asia Minore), che morì a Troia, lontano dalla sua patria, combattendo con Achille. Cleta (o Clete), la sua nutrice, venuta a conoscenza dell’accaduto, pazza di dolore, salpò alla volta dell’Asia Minore per andare a recuperare la salma dell’amatissima regina, ma durante la navigazione è spinta da venti contrari sulle coste della Calabria. Qui si fermò sulle sponde del mar Tirreno dove fondò una città a cui diede il suo nome, che, dispose, sarebbe stato il nome di tutte le regine che a lei sarebbero succedute. Perché rinunciò a proseguire il suo viaggio? Vincenzo Padula, nella sua Protogea ossia l’Europa preistorica, così lo spiega: “Come fu nei nostri mari scese a terra e o perché trovò impossibile compiere il pietoso ufficio o forse perché le piacesse l’amenità del sito decise di non passare più oltre, vi si fermò ed edificò la città che dal suo nome si chiamò Cleta”.

Licòfrone, poeta greco del IV secolo a.C., racconta nell’Alessandra la vicenda di Pentesilea, veloce vergine dall’elmo di bronzo, e della sua nutrice, e così riassume la nascita e le sorti della città di Cleto: “Ed avendo quivi fondato una città regnerà sulla regione; dalla stessa tutte quelle che saranno regine si chiameranno Clete.

Nel 534 a.C. incontriamo Cleta (oppure Clete, come riportano altre fonti) alleata con Temesa e troviamo le due città attaccate da Crotone. Capitano generale della spedizione è Formione, che parte con soldati a piedi e a cavallo.

L’assedio a Temesa durò quattro mesi. Alla fine la città crollò e i prigionieri furono spediti a Crotone con al seguito un ricco bottino derivante dal saccheggio. Poi toccò a Cleta. La città oppose tenace resistenza, alcuni scrittori dicono che persino il generale crotoniate rimase ferito nell’assedio. Ad un certo punto, però, la regina Cleta (una delle tante regine omonime che vennero dopo la “prima” Cleta) si arrese, Firmione pretese la sua morte e la resa delle sue genti. I Cletesi ubbidirono, e così facendo salvarono la loro città dalla distruzione, ma non dal saccheggio.

La costa tirrenica e il suo entroterra sono, infatti, stati considerati per secoli dagli storici locali quale possibile area per la localizzazione di Cleta. Seguendo l’opinione di Barrius e Marafioti, il sito suggerito per Cleta era nelle vicinanze di Aiello (Cosenza), più precisamente il luogo chiamato Pietramala fino al 1863.

Dal territorio di Cleto provengono due asce di rame datate alla fine dell’Eneolitico, ora al Museo di Reggio Calabria. Da Pantano di Cleto erano noti materiali di bronzo (cuspide, punta di lancia, spada a lingua di presa, fibule anche a quattro spirali) acquisiti da Paolo Orsi nel 1924. Gli oggetti in bronzo, il gruppo di fusaiole e rocchetti fittili, le armi e le fibule di località Pantano. Le tombe scavate nel banco roccioso che domina la destra idrografica del torrente Torbido, in località Piro. Il vasellame a vernice nera e le sepolture e tombe di età tardo-antica in Marina di Savuto, collinetta alla destra idrografica del fiume Savuto. I resti di strutture murarie in ciottoli e spezzoni di tegole nelle località Marina di Savuto e Pantano. I frammenti di ceramica d’impasto preistorica e le tombe a grotticella artificiale in località Costieri, pendio collinare alla destra idrografica del Torbido. . A Cleto è dunque testimoniata una continuità di vita dell’abitato dagli inizi del medio Bronzo fino all’età del Ferro.

Annalisa Marchianò descrive Cleto come “un luogo di silenzio, sogno e storia come solo in Calabria se ne trovano, una “città invisibile” che avrebbe ispirato Calvino, una manciata di case aggrovigliate, pencolanti sull’abisso, una teoria di calde geometrie di luce che irradia verso la sommità, dove domina il castello, la cui imponenza non stride affatto con la sua strana bellezza piena di levità extraterrestre”.

Annalisa Marchianò è nata a Cosenza nel 1976 e vive tra Bologna e la sua Calabria. Nella vita fa l’editor e la traduttrice: l’ultima sua traduzione è L’intelligenza dei fiori di Maurice Maeterlinck. È cofondatrice dell’agenzia letteraria Otago Cultural Services and Agency. 101 cose da fare in Calabria almeno una volta nella vita è il suo primo libro.

Il Medioevo

Particolare di Cleto

Intanto per la Calabria iniziano secoli di storia all’ombra di una civiltà che riesce a far prevalere l’elemento greco su quello latino e che dimostra di essere in grado di diffondere il diritto giustinianeo in diversi Paesi dell’Occidente, grazie anche ad un Bruzio strappato ai Goti e affidato alla restaurazione bizantina del 554. Durante quegli anni, la città di Cleta conosce un periodo di decadenza che si trascina fino all’anno Mille, quando la Calabria è costituita da una moltitudine di villaggi montani, isolati e autosufficienti, che fanno da corona ad una campagna abbandonata perché insicura ed alle coste in preda alla malaria. I Saraceni continuano le scorrerie devastatrici lasciandosi dietro e morte e desolazione, mentre l’economia è debole e precaria, anche se mostra già alcuni punti di forza con l’agricoltura, l’allevamento allo stato brado e la lavorazione della seta. Unica luce accesa in quei secoli bui è quella dei monaci basiliani, i quali, arrivati in Calabria in varie fasi, dapprima operano in celle impervie, eremi adattati per la meditazione e costruiti in cavità naturali, poi in grotte raggruppate attorno ad una chiesetta fino a costituire un cenobio, ed infine nei monasteri.

È difficile sapere se in epoca bizantina il territorio di Cleto sia stato un castrum, e quindi se la successiva fase di incastellamento medioevale sia stata effettuata tenendo conto di una rocca preesistente. Così come è difficile stabilire se in una Calabria popolata da Longobardi, Bizantini, Latini e Musulmani le terre di Cleto siano state abitate da genti sparse o da una popolazione residente in forma stabile. Di certo sappiamo che il centro era interessato da una efficace gestione agricola del territorio, incentrata essenzialmente sulla produzione cerealicola e documentata dalla presenza di grotte, cisterne e silos sparsi dappertutto che fanno dire agli studiosi che il territorio di Cleto rappresentava, allora, «un immenso granaio». E tutto questo, in una regione dove Basilio I il Macedone, imperatore d’Oriente dall’867 all’886, aveva inviato in una sola volta 3.000 schiavi affrancati per ripopolare le zone rese deserte e desolate dalle incursioni saracene. L’usanza di conservare il grano in silos scavati nella roccia (in questo caso di arenaria duttile a facilmente lavorabile), fu portata dai soldati bizantini provenienti dalla Tracia e dalla Cappadocia. Nel libro Puglia Romana, Vito A. Sirago e Giuliano Volpe riportano: “….con l’arrivo dei Bizantini, nel VI Secolo, verrà introdotta l’esperienza del mondo cappadocico di conservare il grano, essendo anch’esso ricco di granaglie….”.

La storica Vera Von Falkenhausen nel libro “I Bizantini in Italia” indica le origini degli insediamenti rurali nel sud Italia - VII secolo - e ne fa una descrizione: “… In Calabria, a partire dal VII secolo è possibile constatare uno spostamento generale degli insediamenti dalla costa verso l’interno. [….]Alle origini del movimento verso l’interno, più che motivi di sicurezza (esso precede di quasi due secoli le prime serie incursioni arabe), possiamo individuare ragioni sanitarie ed economiche. Proprio dall’ormai prolungata inattività commerciale delle città costiere di origine greca gli abitanti furono indotti a cercare zone che offrissero una più sicura, anche se povera, possibilità di sopravvivenza. Forse il decremento della popolazione accompagnato dall’abbandono di molte terre aveva contribuito all’impaludamento delle coste. Ma sarebbe un errore pensare che le vecchie città costiere fossero semplicemente sostituite da nuove città nel retroterra: sembra piuttosto che tutta la struttura degli insediamenti fosse cambiata. Da una attenta lettura delle vite dei santi calabresi del Medioevo risulta che la maggior parte delle persone menzionate non abita in città, ma risiede invece in villaggi o in castelli. Anche se non si vogliono sopravvalutare tali fonti ai fini del presente discorso, mi appare ugualmente significativa la scarsa presenza delle città nei testi agiografici di origine calabrese. Probabilmente siamo di fronte a un processo di ruralizzazione. [….]Quanto agli insediamenti rurali, si sono conservati in Sicilia, in Terra d’Otranto e nella provincia di Matera alcuni villaggi rupestri, senza dubbio abitati in epoca bizantina. Per secoli essi sono stati considerati in rapporto alla vita monastica: si vedeva in ogni grotta la sede di un eremita e in ogni complesso rupestre un romitaggio fiorente. Solo da poco tempo si è sottolineato il loro carattere di strutture abitative. Di solito si tratta di complessi di grotte, in parte naturali e in parte ricavate nella roccia, collegate fra di loro da sentieri e scalette. Spesso si possono individuare ambienti abitativi con nicchie-alcove, nicchie a ripiani, fori di aerazione e fori per l’appoggio di travi nelle pareti; vi sono cisterne, spesso di uso comune, e grotte che servivano come stalle per animali, come depositi e come trappeti. Numerose sono le grotte trasformate in chiese o in cappelle, ma più che chiese monastiche erano parrocchie con cura d’anime. Purtroppo le testimonianze archeologiche non sono suffragate dalla documentazione scritta, per la quasi totale mancanza di fondi archivistici di epoca bizantina relativi alle zone in cui il fenomeno rupestre era più diffuso.” Quanto descritto dalla Falkenhausen sui villaggi rupestri trova riscontro anche nell’abitato di Cleto.

L’Architetto Stefania Aiello scrive: «L’antico abitato è collocato su un poggio addossato alle pendici del monte Sant’Angelo, ad un’altezza media di 300 metri s.l.m. […] Nella scelta del sito, elementi che hanno sicuramente determinato la costruzione del castello e lo sviluppo dell’abitato sono la confluenza di corsi d’acqua, il territorio molto fertile e la presenza della strada che collegava ad Aiello, importante centro già dall’età bizantina».

E nei Taccuini di Studi Calabresi (Anno 2010, n. 3) pubblicati a cura del Prof. Francesco A. Cuteri troviamo scritto: «La stessa area su cui sorge l’abitato di Cleto fu probabilmente frequentata in epoca molto antica, così come sembrerebbe suggerire la presenza, favorita dalla particolare conformazione rocciosa, di numerose unità rupestri. Tali unità, sebbene frequentate in età medievale e moderna, analogamente a quanto si registra in molti altri insediamenti della Calabria, della Puglia, della Basilicata e della Sicilia, presentano talvolta non poche similitudini con le grotticelle funerarie rinvenute a Cozzo Piano Grande di Serra d’Aiello, datate alla media Età del Bronzo e con quelle di Soverato».

Pietramala - Petramale

Particolare di Cleto

Occorre aspettare il pontificato di Clemente V (1305-1314) per trovare Petremale, citato nei Regesti come luogo religioso. Cleto, infatti, risorge nella prima metà del XIII secolo, durante il regno svevo di Federico II, l’imperatore che stupì e cambiò il mondo, ed è in quel periodo che la cittadina cambiò nome, giacché «l’attuale sito del Castello di Cleto è conosciuto nelle fonti archivistiche e cartografiche sin dalla prima metà del XIII secolo come Castri Petramala, nome probabilmente derivato dalla particolare conformazione rocciosa del luogo su cui esso fu edificato».

Una conferma in tal senso viene da M. Iusi, che in un lavoro su alcune «motte» calabresi definisce credibile l’ipotesi di “Pietramala” come luogo roccioso.

E di «tenimenti concessi da Guido di Pietramala e dal suo figlio Ruggero» si parla nel 1221, quando da Brindisi Federico II conferma all’abate Rodolfo le libertà e le proprietà fino allora concesse all’Abbazia di S. Maria di Fonte Laurato.

La Badia di Fonte Laurato è stata fondata nel 1201 sul territorio di Fiumefreddo Bruzio, quando il signore feudale Simone di Mamistra e la moglie Gattegrima, privi di figli, donarono il vecchio monastero di santa Domenica (rovinato dal terremoto del 1184) e le sue pertinenze all’abate Gioacchino da Fiore, che era stato abate della Sambucina, nei pressi di Luzzi, primo monastero dell’ordine Cistercense in Calabria, e che poi aveva fondato l’ordine Florense. Costruita col consenso di Riccardo vescovo di Tropea, l’Abbazia nel 1204 prese il nome di “Santa Maria di Fonte Laurato” e divenne importante ed influente, arrivando a governare vasti possedimenti e tenute. Nel 1267 il papa Clemente IV amplia le donazioni aggiungendovi la Chiesa di Sant’Angelo Militino in Rossano, la Grangia di Paola, tenute situate in Sila, le vigne di Cosenza e Amantea e, fra l’altro, “terras de S. Ioanne de Oliva, de Grima et de Suberellis […] Tenimenta quaehabetis in finibus Petraemalae et Sabbuti; culturam de Turbulo in tenimento Nuceriae…” I possedimenti, che attraverso Cleto e Savuto si spinsero nell’attuale territorio di San Mango, furono confermati verso Sud fino oltre il fiume Savuto e verso Nord fino a Fuscaldo e Falconara. Cfr. A. Orlando, A. Sposato, San Mango d’Aquino. Storia folklore tradizioni poesia, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1977, pp. 17-18.

Mentre nel 1267 la Bolla papale di conferma dei privilegi allo stesso monastero di Fonte Laurato menziona i confini dei territori e recita testualmente: «Tenimenta quae habetis in finibus Petraemalae et Sabbuti».

L’antica e mitica Cleta diventa così Pietramala, e nella nuova denominazione conquista un posto di rilievo fra i centri della costa tirrenica. Nei Registri Angioini che misurano la popolazione calabrese del 1276 Petramala (Giustizierato della Valle del Crati e Terra Giordana) è presente con 214 abitanti ed è tassata per 2.568 grana.

Il castello di Cleto

Castello di Cleto

La zona, però, è colpita dalle incursioni musulmane ed il territorio rimane in gran parte abbandonato. La mancanza di prodotti da esportare fa cadere in disuso il porto di Amantea, la cui città, nel 1276, con i suoi 2.495 abitanti mantiene un buon livello di popolazione. Martirano conta 1.816 abitanti, Nocera 1.352, Grimaldi 1.221, Aiello 709 e Pittarella 418. E tutto questo avviene mentre la guarnigione del castello di Aiello è, con quella di Stilo, la più numerosa di tutta la Calabria.

A questo punto sorge la domanda: quando è stato costruito il castello di Cleto?

Indagini eseguite all’interno dell’edificio sembrano confermare la frequentazione del sito in epoca bizantina, e la studiosa S. Aiello ci informa che il manufatto è edificato in fasi diverse e le strutture seguono le condizioni topografiche del terreno. Alla prima fase, ascrivibile all’epoca sveva, segue la fase angioina, che si manifesta anche con l’aggiunta delle due torri cilindriche, una delle quali posta a difesa dell’accesso principale. Con la diffusione in Europa del sistema di fabbricazione della polvere nera e con l’introduzione dei fucili e dell’artiglieria, cambia il modo di fare la guerra e vengono modificati anche i modelli difensivi: le mura alte e merlate e le piccole torri cilindriche lasciano il posto a baluardi bassi e di maggiore spessore. In quell’epoca, anche il castello di Cleto subisce rimaneggiamenti, con l’allargamento dello spessore delle mura e l’introduzione delle bocche da fuoco; per finire con la costruzione dei diversi ambienti abitativi, in epoca più recente, da parte della famiglia Giannuzzi-Savelli. Intanto, dopo il citato Guido (o Guidone) da Pietramala, signore feudale già nel 1220, e dopo il figlio Ruggero, alla guida del feudo troviamo nel 1239 Jacobus di Petramala e poi, fino all’avvento degli Angioini, Goffredo di Petramala.

Quando a Lucera, nel 1269, viene domata la rivolta delle milizie saracene rimaste fedeli agli Svevi, e quando nel 1272 muore Enzo, ultimo figlio di Federico II, e si estingue così la dinastia maschile della Casa di Svevia, le terre del Regno di Napoli passano sotto il controllo di una dinastia francese. Carlo d’Angiò, conte di Provenza e fratello del re di Francia Luigi IX il Santo, chiamato in Italia dal papa Urbano IV, ha già sconfitto in battaglia i pretendenti svevi: nel 1266 Manfredi, figlio naturale dell’imperatore Federico II e della contessa piemontese Bianca Lancia; nel 1268 Corradino, il nipote quindicenne di Federico.

Le gerarchie ecclesiastiche, ovviamente, sono dalla parte degli Angioini, e molti feudatari calabresi sposano la causa del conte di Provenza, sceso dalla Francia nel Mezzogiorno d’Italia per conquistare un regno. Fra i sostenitori della causa sveva troviamo Goffredo da Petramala, il quale, dopo la vittoria angioina, fu bandito dal regno come traditore per essersi schierato con Corradino di Svevia.

Periodo Angioino (1266-1442)

Cupola bizantina di Cleto

Nel periodo angioino Petramala, risulta essere casale dello Stato di Ajello insieme ad altri feudi e castelli.

La Calabria sotto gli Angioini conobbe un periodo di decadenza, la crescita economica si arrestò,dilagò il latifondo e quando Carlo distribuì i feudi confiscati ai sostenitori della casa di Svevia tenne da parte i baroni calabresi e favorì i nobili della Provenza che erano venuti in Italia al suo seguito. La rivolta contro il dominio angioino, scoppiata all’arrivo in Italia di Corradino (1268), figlio di Federico Il, vide la resistenza di Ajello e di Amantea contro Pietro Ruffo. Ma il Giustiziere di Aiello Giovanni Brayda e l’Arcivescovo di Cosenza Tommaso da Lentini assoldarono un gran numero di armati e riconquistarono le città, assieme a quella di Arena, infierendo sui “traditori”. I documenti dell’epoca (1269) riportano i nomi, la loro prigionia nel castello di Ajello, le feroci torture: “….extrahi ambos oculos… a radicibus… jumenti trahi et suspendi…".

Nel 1269, dunque, Goffredo di Petramala si vide confiscato il feudo e venne bandito dal regno come traditore, per essere rimasto fedele alla Casa Sveva, dalla quale la sua famiglia aveva ricevuto tanti benefici e il feudo passò a Guglielmo de Forest e successivamente a Pietro Barbaro di Napoli.

1266 Guilielmo de Foresta mi.,dom., Castri Petremale, esecutoria concessionis bonorum proditum.

1269 Pietro de Barbaro de Neapoli, militi familiari, cui concessimus bona feudalia proditorum de Castro Petremale, provisio pro possessione. (Fol.210 t.)

1269 Guillelmo de Foresta militi, exequitoria concessionis bonorum proditorum de Cusentia videlicet Goffridi de Petramala, Bartholomei de Insula, Ioannis de Peregrino, Peregrini Spatafora, Goffridi de Abbate, Roberti Anima Pregadeu, Rogeri de Portaplana,(fol.144 e t.150).

Mentre Aiello era difesa da un imponente castello (di origine normanna) amministrato da capitani direttamente nominati dal re, Petramala costituiva una fortificazione isolata a difesa del borgo sottostante.

Nel 1270 il re Carlo I d’Angiò consegnava il Castello e la Baronia di Petramala al francese Ugo de Foret.

1270 Hugoni de Foresta, mil.(ites) concedit ad annuum censum bona que fuerunt Goffridi de Petramala, Goffridi de Abbate, Philippi Veteris, Rogerii de Portaplana, Monachi de fratis eius, iud.(ex) Bernardi et Matthei Cortigiarii de Cusentia, proditorum.

Nel 1273-77 risulta feudatario Guglielmo de Foret, un congiunto di Ugo, il quale veniva molestato nei suoi vassalli da Ludovico de Royre, signore di Aiello, tanto che dovette intervenire lo stesso re ad ammonire Ludovico.

1277 Mandat ne Lodoycus de Roire, dom.(inus) Castri Agelli, molestet homines Castri Petramale, Vassallos Guillielmi de Foresta mil.(ites).

Nel 1276, Petramala figura fra i nuclei urbani censiti dal catasto angioino] con 1271 abitanti, insieme a Nocera (1325), Martirano (1816) e Nicastro (3637), mentre Ajello, che contava meno di 1000 abitanti, doveva pagare enormi tasse per il mantenimento delle milizie.

Nel 1278-79, fu feudatario di Petramala Giovanni Burbuno, milite e familiare di re Carlo I d’Angiò. Nello stesso tempo il re restituiva il feudo alla regia Curia in cambio di tutti i beni che la stessa possedeva nel casale Limate e consegnava il castello di Petramala a Giacomo di Roma, figlio di Federico, (a sua volta originato da un altro Giacomo, conte di Andria).

1277-79 Iohanni Burbuno, miles et fam.(iliaris), qui R. Curiae resignavit casale Petremale, concedit omnia bona, que eadem Curia possidet in casali Limate.

1277-79 Iacobo de Roma, f.(ilius) qd (quondam) Frederici, nati quondam Iacobi, dicti comitis Andrie, rex donat Castrum Petremale, in Calabria, R. Curiae resignatum per Guillelmum Burbundum, ex quo pred.(ictus) Iacobus R. Curiae remisit omne ius quod habebat de comitatu andiate et de patrimonio quondam Rogeris comitis Andrie, vid.(elicet) de civitate Excoli, de civitate Matere, de castris Guardie Lombardorum, Fumari, Zunculi, Vallate, Civitate Vici, Castris Candele, Caurati, oppiai, Ripecandide, Cancellarie et casalis Aspri. Que cessio pred. (ictus) Iacobus fecit in manibus Leopardi, Cancellarii Principatus Achaye, M.(agna) Curiae Mag.(ister) Rationalis.

Particolare di Cleto

Nel 1282, in conseguenza dello scoppio della guerra del Vespro, le represse ma non spente forze antiangioine si destarono anche in Calabria e presero a parteggiare per re Pietro d’Aragona, che si considerava erede della corona sveva. La regione visse in quei secoli un periodo difficile, contrassegnato da rivolte contro le angherie francesi, e da guerre di questi contro gli Aragonesi.

Carlo I d’Angiò fece costruire in questo periodo, a breve distanza dal castello di Petramala, un ben munito e forte castello sulla sponda settentrionale del fiume Savuto, per poter tenere sotto controllo l’ampia vallata, fino al mare, da dove era persistente il pericolo di sbarco delle navi siculo-aragonesi. Nel 1285, scomparso tale pericolo, i due castelli, quello di Petramala e quello di Savuto, col relativo territorio, furono dati in feudo alla famiglia dei Sersale e ad essi restarono fino al 1452. Secondo l’Adilardi,che fa riferimento ad un “Regest.1314 c. fol. 240”, Petramala nel 1314 sarebbe stata feudo dei Guinsac, ma su questo casato tale autore non fornisce ulteriore dettagli.

Sotto il pontificato di Giovanni XXII (1305-1314), in una nota dei Regesti Vaticani, risulta che Petremale fa parte dei Comuni della Diocesi di Tropea insieme ad Amanteae, Nuceria, Augelli, Fluminis Frigidis.

Nel 1323 lo spodestato Goffredo di Petramala, che in quegli anni si era rifugiato in Sicilia, tornò furtivamente in Calabria con l’incarico ricevuto dallo stesso re Pietro d’Aragona di sollevare le popolazioni della riviera tirrenica, ma non riuscì mai più a riavere il suo feudo. Insediatisi stabilmente gli Angiò nel Regno di Napoli, Aiello venne incorporata nei beni della corona e da allora dipese direttamente da quei monarchi, che l’amministravano mediante Castellani o Capitani. Nel 1327 Re Roberto confermava nell’incarico di amministratore dei feudi di Aiello, Petramala, Lago, Fagnano, Savutello, Cropani e Zagarise il sorrentino Antonio da Sersale, la cui famiglia già da diversi anni conduceva tali feudi.

I primi feudatari del periodo angioino avrebbero avuto Aiello e casali in feudo vita natural durante o per brevi periodi per la mancata continuità dei vari casati. I re angioini, quasi sempre sprovvisti di denaro a motivo delle continue guerre sostenute, avevano maggiore interesse ad alienare spesso e per breve tempo i feudi, che servivano loro anche come premi da conferire ai più meritevoli tra i loro seguaci.

Nel quattordicesimo secolo, sembrerebbe attestata la presenza di un casato di Signori di Marano o Marani.Si tratterebbe di una famiglia estinta nel giro di poche generazioni, su cui non mancano riscontri nelle fonti del tempo. Si parla di un Raone investito del castello di Marano e di altri feudi dal re Roberto, nel 1337.

Nel 1360 si fanno i nomi di Gilberto, Filippo e Ruggieri, confermati nei loro titoli. Successivamente un Francesco figura come signore di Marano e titolare dei feudi nella valle del Savuto, un Mazzeo ottiene il titolo di capitano della cavalleria e risulta strettamente legato alla potente famiglia Sanseverino.

Nel 1421 Luigi III d’Angiò nomina capitano e castellano di Aiello “Giovanni” conferendogli in feudo ledipendenze di Pietramala, Lago e Savutello. Le terre, passate in proprietà di Andrea, nobile di Sorrento, edereditate dalla figlia Antonia e dal marito Artusio Pappacoda, furono vendute nel 1425 a Giovanni Sersale diSorrento, con l’assenso di Luigi III tramite il suo giudice e consigliere Antonio Telesio.

Periodo Aragonese (1442-1503)

Particolare di Cleto

Nel periodo aragonese il feudo di Petramala, insieme a Lago e Savuto, è ancora alle dipendenze dello Stato di Aiello. Nell’investitura del feudo di Ajello si succedono due importanti famiglie: i Sersale di Sorrento, casato nel quale si distinse il noto Sansonetto, e la famiglia spagnola dei Siscar, cavalieri premiati dai sovrani per la loro costante fedeltà.

Nel 1442 Alfonso I, detto il Magnanimo, primo re aragonese di Napoli, conferì ai suoi seguaci nell’impresa della riconquista del Regno, privilegi e investiture di feudi. Con un documento datato 24 luglio 1442, fu concessa la castellania e capitania di Agello “pro se et suis heredibus” al nobile Antonio Sersale di Sorrento, signore di Savutello, Petramala e Lago. Il documento indica anche i compensi che avrebbero dovuto formarelo stipendio dei Sersale. Nel 1445 il sovrano gli assegnava uno stipendio annuo di 40 once (240 ducati) per la capitania e castellania della città.

In data 26 maggio 1452, con tre lettere indirizzate da Pozzuoli al Commissario del Re nel Ducato calabrese Antonio de Traiecto, all’Università ed uomini di Aiello ed al suo Viceré e Luogotenente Francesco Siscar, il re Aragonese ordinava ai suoi amministrati di voler accogliere benevolmente nelle terre il nobile Sansonetto Sersale, Capitano e Castellano di “Ajello,Petra mala,Sabucto et lo Laco cum tucti loro raduni et pertinencii”.

Nella lettera inviata agli Aiellesi si legge:”Fideles nostri dilecti. Comandamove espressamente de certa nostra scientia per quanto avete cara la gratia nostra che debiate obbedire lo magnifico et fidele nostro Sansonecto Sersaro come Castellano et Capitaneo de questa terra,cussì como avete obbedito so patre per lo passato fini ad altro nostro comandamento in contrario,significandone che sopra questo ia scriviamo al nostro Vice Re di questa provincia et ad Misser Antoni dello Jecto nostro commissario”.

Ma nel 1452 e nel 1453 il re dovette intervenire a favore del Sersale, chiedendo aiuto anche al Viceré di Calabria, il suo devoto Francisco (de) Siscar di Valencia. Sansonetto si era reso in realtà protagonista di diverse angherie a danno della popolazione, e forse, rientrava tra quei feudatari il cui arrogante strapotere dava fastidio al governo centrale. Ma soprattutto aveva favorito gli Angioni nei loro tentativi di riconquista del regno: Giovanni d’Angiò era infatti sbarcato nel novembre del 1459, ed aveva nominato “il Mag.co” Giovanni Bertone castellano di Ajello.

Le uniche informazioni pervenute dalla raccolta delle fonti archivistiche aragonesi per questo periodo, riguardano le tassazioni relative al sale ed al “focatico”, imposizioni fiscali correnti.

Particolare di Cleto

Per Petra Mala si hanno diverse consegne di denaro “per lo sale de septembre”. Petramala il 22 settembre consegnava ad Andrea de Ponte, luogotenente di Renzo de Aflicto, regio tesoriere del Ducato di Calabria, tramite Giovanni de Lalina ,la somma di 16 ducati, e 7 e ½ grana. Nello stesso mese, il 28 settembre si versavano 11 ducati, 2 tarì e 15 e ½ grana “in alfosini chinque e lo resto moneta”. “Lo foculeri de Natale” veniva consegnato a Francesco de Alexandro tramite Frantolino de Lioni. Inoltre vennero introdotte le tasse per le concubine dei chierici.

Da un documento conservato nell’Archivio di Stato in Napoli si apprende che nel 1457 Don Francesco de Marano, signore di Lago e Laghitello, “venne a convenzione” con Sansonetto di Sorrento e permutò “la mettà di Laco”, che era di suo possesso, con la terra di Petramala. Successivamente però il Marano, assieme a Geronimo Quattromano e a Sione Scaglione, nel 1462 si ribellarono a re Ferrante e questi privò allora il Marano del feudo di Petramala che concesse a Luca Sanseverino “Duca di Santo Marco”.

Nel 1461 lo spagnolo Francesco Siscar fu nominato dal re Ferrante “Generale Locotenente della Provincia di Calabria Citra” (1463-1480) dopo aver sostenuto un assedio di ben sette mesi nel castello di Cosenza a seguito della sollevazione dei baroni in favore di Giovanni d’Angiò. Alla definitiva sconfitta degli angioini (1462) seguì la destituzione, con un regolare processo (1463), del Sersale.

Il 27 aprile 1463 Ferdinando I d’Aragona concesse in feudo al Vicerè Francesco Siscar la contea di Ajello con tutte le terre Pietramala, Lago, Laghitello, Serra, Motta di Savutello, per la sua fedeltà e i suoi meriti nel sedare le rivolte di Cosenza (1441) e del Centelles (1444). La dinastia dei Siscar sarà feudataria della Contea di Ajello per oltre un secolo,dal 1463 al 1567. Francesco Siscar rimase alla guida dello Stato di Aiello fino al 1480, ed alla sua morte gli successe il figlio Paolo, il quale durante l’ennesima guerra tra Francesi e Aragonesi subì un lungo assedio nel castello di Cosenza dove si era asserragliato per difendere la città dai luogotenenti di Carlo VIII, sceso in Italia per strappare il Regno di Napoli alla corona d’Aragona. Ma la città di Cosenza, nel 1495 cadde in mano ai Francesi e Paolo Siscar fedele al suo sovrano si ritirò nel castello di Aiello, concedendo ospitalità a tutti gli esuli. Sconfitti definitivamente i francesi da Consalvo di Cordova, Paolo Siscar fu nominato Vicerè di Calabria e da quel momento le fortune di Paolo cominciarono a crescere. Per potenziare le difese contro i francesi, nel 1472 il Duca di Calabria Alfonso Il aveva visitato, assieme all’architetto militare Antonio Marchesi, i principali castelli calabresi, tra cui quello di Ajello. Ma l’importanza strategica delle fortificazioni andava diminuendo, sia militarmente e sia per la non convenienza politica del potere centrale alla conservazione di tali strutture, se feudali e non demaniali.

Periodo Viceregnale (1503-1706)

Particolare di Cleto

Scorrerie turchesche, epidemie, carestie e terremoti.

Nel 1524, secondo un documento del 1698, godeva del privilegio comitale aiellese D. Alfonso Siscar, figlio di Antonio, cui a primo settembre dello stesso anno veniva spedita la significatoria, tassa consistente in circa 1154 ducati, da pagarsi per il Relevio dovuto per la morte del genitore a proposito del feudo di Petramala “et diverse annue entrate”.

Alfonso Siscar morì nel novembre 1528 e gli subentrò il figlio Antonio, cui il 5 ottobre veniva spedita significatoria per ducati 854.2.16 a motivo del Relevio dovuto in seguito al decesso del padre ed in merito alla Contea di Aiello ed altre varie entrate.

Nel 1544 Antonio II espose l’intenzione di vendere per 900 ducati a Gio. Tomaso Brancaleone la terra di Pietramala “cum eius Castro ecc.”; in seguito egli però vendette Petramala con “altre su Terre e Feudi” a D. Geronimo Gesualdo, cui addì 22 marzo 1548 era spedita la significatoria. Successivamente nello stesso anno 1548 il predetto conte venne a patti con Francesca de Vayso, sua ava, alla quale cedette il feudo di Pietramala in cambio di “tutti li suoi beni feudali e Burgensatici sistentino Regno di Sicilia”. Cedendo alla congiunta la giurisdizione civile e criminale,Antonio riservò al Viceconte il privilegio di intervenire nelle

composizioni delle cause e fissò nel limite di dieci scudi la tassa relativa.

Nel 1549 il conte di Aiello, con documento scritto, cedeva a D.Giulia Carafa di Napoli, vedova di D.Girolamo Gesualdo, il diritto di ricomprare dal di lui fratello Vincenzo la terra di Petramala, ovvero la cessione dei diritti di ricompera, e dalla zia Francesca Siscar quella di Savuto. Petramala costava a quel tempo ben 5370 ducati e 4600 Savuto.

L’acquisto dei due feudi comprendeva le terre con “suo castello, seu fortelleze, homini vaxalli, et redditi de vaxalli, stimo da Iurisdizione civile, criminale, et mixte, mero, mistoque Imperio, benj, membri feudi, bagliva, officio de mastro d’atti, ragionj, Iurisditionj, actionj et pertinentie qualsivogliano et Integro suo stato ecc.”. Il documento, una richiesta di regio assenso, è datato 15 settembre 1549.

Particolare di Cleto

Nell’anno 1552 risultava pagatore dei Relevi relativamente ad Ajello, Petramala e Savuto, D.Alfonso Siscar, figlio di D.Antonio.

Intorno al 1555, Petramala venne conquistata dai Turchi e come riferisce il Martire, “essendo detta terra saccheggiata da’ turchi né secoli passati, il buon Marco(Mazza),sacerdote, per voler conservare la sacra pisside coll’ostie sacre venne da loro ucciso in odio della fede, come si ha per tradizione, riportato da Gualtieri nel suo Martirologio”.

Un documento datato 1565 scritto da Giacobo Antonio Barbaro, inviato del Consiglio Reale, contiene una descrizione di Ajello, dal quale si ricava che Petramala e Savuto non facevano più parte dello “Stato”.

Il passaggio dei poteri dagli ultimi Siscar ai successivi signori si presenta nello Stato di Aiello sia nei documenti che nelle memorie a stampa, abbastanza nebuloso, per cui risulta assai difficile delinearne un’esatta cronologia. Tale inconveniente è dovuto al fatto che a quei tempi le vendite e le ricompere dei feudi si susseguivano in maniera vorticosa.

Nel 1567 si ha lo smembramento dello Stato di Aiello. Nel 1569 Pietramala passò a Paolo Cavalcante, nobile di Amantea mentre nel 1574 la contea di Aiello fu comprata, dopo qualche passaggio di breve durata, dai Cybo-Malaspina, principi di Massa, per 38 mila ducati. L’avvento di questa famiglia, oriunda di Genova, in un feudo del Regno di Napoli, va visto nel contesto di quel grosso movimento di mercanti e nobili genovesi, i quali, avendo anticipato rilevanti somme ai monarchi spagnoli impelagatisi in continue guerre, si contentarono, pur di non perdere quanto avevano imprestato, di acquistare i feudi per incamerarne le pingui entrate.

In quegli anni, familiari di abitanti di Petramala schiavi dei Turchi versavano in Cosenza ingenti somme di denaro per la liberazione dei loro congiunti.

Nel 1574 il castello di Petramala pervenne a D. Francesco Murano e da questi a Giovan Tommaso Cavalcante.

Nel 1577 la terra di Pietramala venne venduta all’asta ad istanza dei creditori del conte Alfonso Siscar e per ordine della Real Corte, rimanendo aggiudicata a Gio. Tommaso Cavalcante “con le giurisdizioni di Baglive, officio di Mastro d’atti; Banco della Giustizia, e Cognizione delle Cause Civili, Criminali, e miste mero imperio”. Morto Gio. Tomaso il 15 luglio 1562,ebbe il p ivilegio il di lui figlio Pietro Paolo, cui il primo ottobre si spediva la significatoria. Nel 1577 si prestava Regio Assenso alla vendita di Pietramala fatta dal secondo Cavalcante “in beneficio del Dr. Francesco Cavallo (seu Scipione) della Città di Amantea”, che risulta tassato per “detta terra” nel “Cedulario dell’anno 1579”.

A tale vendita si oppose però l’Università, che presentò un “memoriale all’Illustre Vicerè di quel tempo supplicando esser ammessa al R. Demanio” e offrendo di pagare quanto richiesto dal Cavalcante, La Regia Camera, interessata della cosa, approvava in data 7 maggio 1580 e il 26 agosto dello stesso anno spediva il “Regal Privilegio”]. Ma da una lettera che “El Rey” di Spagna spediva al “Visorey Lungarteniente Y Capitan General” in data 4 novembre 1580, dobbiamo rilevare che in tale tempo “Scipion Cavallo” risultava “Baron de Petramala”,come pure nel 1582.

Particolare di Cleto

Non sappiamo quanto tempo il Cavallo sia rimasto titolare del feudo di Pietramala (dal Cedolario 75 sembra fino al 1583),ma certo un tal barone non dovette riuscire ben accetto ai suoi sottoposti se nel 1579 l’Università,che lo considerava sempre “pretenso barone” veniva a denunziarlo per usurpazioni e malversazioni.

Nel 1577 il feudo di Petramala fu acquistato da Scipione Cavallo, patrizio d’Amantea, che ancor prima dell’acquisto aveva commesso varie usurpazioni e soprusi ai danni degli abitanti del luogo, come si ricava da una denuncia sporta alla Regia Corte dall’Università di Petramala contro di lui considerato non legittimo signore ma “pretenso barone”.

Nel 1583 gli abitanti si rivolsero alla Regia Corte denunciando il Barone per usurpazioni e maltrattamenti e dopo una lunga lite furono dichiarati liberi da vincoli feudali. Ma non potendo far fronte ai numerosi impegni finanziari ai quali era soggetta, l’Università di Pietramala fu costretta a vendersi, ed il 1603 fu riconosciuto Signore di Pietramala Carlo d’Aquino, il quale ottenne dalla regia Camera il possesso della città per 26.000 ducati.

Nel 1601 un D.Carlo Siscara concorse inutilmente all’acquisto del feudo di Pietramala.

Nel 1601 l’Università di Pietramala, che frattanto si era affrancata, non riuscendo più a soddisfare i creditori e non trovando rimedio alcuno per sanare i propri mali, dovuti alle tasse ed ai vari esosi Commissari, decise di chiedere alla Real Corte il permesso di uscire dal Demanio e vendersi al miglior offerente. Sempre nel Cedolario si dice che se non si fosse provveduto alla vendita richiesta, Petramala “in breve tempo si saria disabitata non solo con ruina de loro Cittadini, ma anco con danno della Regia Corte.

Nell’occasione spuntò ancora Scipione Cavallo, che pretese, come ex-feudatario, di essere considerato il preferito, ma la Regia Camera decise altrimenti e provvide a bandire regolare asta. Tra le tante offerte, pervenne quella di D. Carlo Siscara, a mezzo del procuratore Gio. Domenico Tasone, ma prevalse, addì 1 luglio 1603,quella del Dr. Pietro Alesio Boiano, che offrì per Petramala 22.500 ducati.

Particolare di Cleto

L’8 luglio successivo però. D. Carlo D’Aquino principe di Castiglione depositava nel banco genovese degli “Spinola, Ravaschiero e Lumellino” 26.000 ducati e faceva istanza alla R:Camera d’acquistare lui la Terra di Pietramala. La Regia Camera rispondeva positivamente e l’11 luglio ordinava ala capitano della Terra di Motta S.Lucia d’immettere in possesso del privilegio il d’Aquino, e, per esso, il procuratore Ambrosio Fido.

Nei primi anni del XVII secolo e probabilmente nel 1605, anno in cui Filippo III elevò il marchesato di Aiello in ducato, i Cybo-Malaspina, successori di Alberico, comprarono dai d’Aquino il castello ed il feudo di Petramala. Il 1 luglio 1606 Carlo d’Aquino, Principe di Castiglione e Conte di Martirano, acquistò all’asta, a danno di Francesco Scipione Cavallo e per il prezzo di 26.000 ducati il casale di Pietramala col dipendente feudo di Turboli.

Nel 1616 Petramala veniva ad appartenere, come per assenso regio del 2 gennaio, al Dott. Ercole Iannuccio o Giannuzzi. Morto il Dr. Ercole il 26 gennaio 1637,il feudo pervenne al figlio Odoardo, cui nel 1640 era spedita la significatoria e che avrà il feudo fino al 1652. Costui avrebbe accomodato e fortificato il castello modificandolo (nel periodo compreso fra i due terremoti!!!)

I Cybo-Malaspina di Aiello mantennero il feudo di Petramala fino al 1629, anno in cui D. Carlo Cybo lo vendette per 30000 ducati al barone Odoardo Giannuzzi-Savelli.

Nel 1616 la Città di Ajello deve ricorrere a prestiti con il barone di Pietramala Ercole Giannuzzi, come documentano atti notarili del 1622 e 1628, e si dice che il duca Carlo Cybo (figlio di Alberico morto il 1623) abbia allora venduto Petramala ai Giannuzzi, tramite il suo agente Sertorio Stefanizzi: in realtà il Principe Cesare D’Aquino, cedente, ne era già titolare dal 1615, e nel 1592 Savuto era passato al conte Carlo D’Aquino.

La famiglia Giannuzzi Savelli, avrebbe avuto origine da un Giovannuzzo Savello, figlio di un Dottor Antonio Savello, patrizio romano giunto in Aiello assieme al figlio nel 1421 per sottrarsi a delle persecuzioni politiche.

Sotto i Giannuzzi-Savelli Petramala ebbe un notevole incremento demografico passando dagli 825 abitanti del 1644 ai 1556 abitanti del 1798, e divenne una baronia indipendente, con vita autonoma; tale rimase, per più di un secolo, sotto la stessa signoria, fino all’abolizione della feudalìtà. Il primo barone di Petramala fu Odoardo Giannuzzi-Savelli, a cui successe Giovan Battista Giannuzzi-Savelli che restaurò il castello dandogli miglior forma e fortificandolo. Gli ultimi feudatari furono Emilio e Domenico Giannuzzi-Savelli.

Particolare di Cleto

1630 peste

27 marzo 1638 terremoto: a Pietramala 53 morti.

Il terribile sisma del 1638 causò in Calabria migliaia di vittime: esse furono molte in Ajello, dove “ruinarono magior parte delle case”, ed il castello venne gravemente danneggiato. La città, così come la terra di Pietramala, si vide costretta a rinnovare la richiesta di sgravi fiscali già avanzata a seguito della crisi. I morti furono 53.

Nel 1648 l’Università di Pietramala è terra e titolare di tutte le entrate feudali.

Nel 1656 peste, crisi economica, malaria, incursioni dei pirati turchi, emigrazione.

austriaci (1707 – 1734),

borboni (1734 – 1806),

francesi (1806 – 1815).

la popolazione accolse di nuovo con entusiasmo gli spagnoli, con il re Carlos III di Borbone che attuò una politica liberale, diminuendo i privilegi dei nobili e del clero, realizzando il censimento catastale (1741), incentivando l’economia ed il progresso sociale. Poca importanza ha, con il generale abbandono delle fortificazioni, che il castello fosse ormai distrutto, come attesta un atto notarile del l789, in cui vediamo un esponente della famiglia Giannuzzi, Scipione, rappresentare il Di Tocco.

Nel 1799, il cardinale Ruffo, a causa dello schieramento di Ajello in favore della repubblica partenopea, sequestra il feudo ai Cybo –Di Tocco, nominando amministratore il barone Lelio de Dominicis sino al 1801. Quindi il feudo fu perso definitivamente a causa delle leggi sull’eversione della feudalità (1806 – 1808).

Nel decennio francese la cittadina passa nella giurisdizione del cantone di Belmonte, quindi nel governo di Rogliano, sino al 1811, anno in cui questa cittadina diventa capoluogo di Circondario (comprendente Terrati, Serra, Lago, Laghitello, Pietramala e Savuto).

Risorgimento e 900 - CLETO

Pietramala partecipa al movimento risorgimentale contro il governo borbonico con Nicola Pagliaro, accusato nel 1847 di cospirare contro la sicurezza dello Stato, e con Federico Spanò e Luigi Scorza, accusati di complicità in un mancato regicidio.

Al momento dell’Unità d’Italia, Pietramala, che aggrega pure la frazione di Savuto, arriva a contare complessivamente 1.515 abitanti e nel 1863 il paese cambia la denominazione in Cleto. Nel 1928 la cittadina viene retrocessa a frazione ed aggregata ad Aiello, ma nel 1934 Cleto ottiene di nuovo l’autonomia amministrativa e torna ad essere un Comune.

Nel 1946 la Repubblica vince il referendum: 881 voti contro i 543 dati al sistema monarchico. Nel 1961 Cleto conta 2.492 abitanti, e c'è più gente nella frazione di Savuto (1.180) che nel capoluogo (1.109); il resto vive nella frazione di Torbido (203). Quarant’anni dopo, i dati Istat assegnano a Cleto 1.373 abitanti, con 847 abitazioni a fronte di 486 famiglie.


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  • Silvana Luppino, Il versante Nord-Occidentale del Fiume Savuto, in Temesa e il suo territorio, a cura di Gianfranco Maddoli, Taranto, Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia, 1982, pp. 75-78. La necropoli della prima Età del Ferro a Pantano di Cleto presuppone l’esistenza di un abitato corrispondente, che non è stato ancora identificato; cfr. J. De La Genière, Atti del Colloquio di Perugia e Trevi (30-31 maggio 1981);

  • Stefania Aiello, Il castello di Petramala. Le ragioni di un restauro strutturale, Soveria Mannelli, Calabria Letteraria Editrice, 2010, pp.23-25;

  • Vito Antonio Sirago, Giuliano Volpe “Puglia romana” Edipuglia srl, 1993.

Le immagini fotografiche presenti sul sito e nell’opuscolo sono di: Francescosco Bevilacqua e Gaetano Cuglietta.

Ai sensi dell’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633

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